Sono mesi che c’ho sta questione degli incontri che mi frulla per la testa.
E no, non sto parlando di Tinder, che a quello ci pensa già la Lucarelli.
Insomma: mesi che mi chiedo come cavolo scrivere con dita lievi di qualcosa che m’ha salvato la testa e, magari, fa fare due pensieri sereni pure a voi.
Avete presente tutte le volte che ci siamo sentiti ripetere che avremmo trovato (o dovuto trovare) la nostra strada? Beh, io ero convinta che l’avrei trovata lanternino alla mano.
Un bel giorno, credevo, avrei finalmente scovato le coordinate del sentiero che mi (a)spettava: era sempre stato là, avrei scoperto; già tracciato, quasi una vocazione atemporale stabilita mentre ancora persa, a vagare per un labirinto che ‘mio caro Icaro fammi il piacere’, se ne stava quella me, più che temporale, nel bel mezzo di un temporale – e senza ombrello, inutile dirlo.
Così mi affannavo a decifrare nel corso delle giornate segnali, cartelli stradali che sapessero guidarmi verso La strada (e io e la guida, lo sapete, siamo decisamente una contraddizione in termini!). A forza di cercare, gennaio s’è fatto dicembre, l’anno nuovo è diventato vecchio, la fronte ha messo su una ruga in più, non certo scalfita da labbra incurvate all’insù.
Insomma, il tempo è passato e ho iniziato a sentire che il bel giorno, di cui sopra, avrebbe dovuto essere alle porte. Eppure non bussava: nessun Toc-Toc alla porta, nessuna strada a cui aprire il mio orizzonte.
Che il mio navigatore GPS non funzionasse a dovere? Che fosse guasto?
O guasta io, magari. Sì, milioni di volte, mi ci sono sentita: guasta.
Persuasa d’essere male impostata, ricalcolavo il mio percorso, ottenendo niente più che una clessidra continua.
Poi non ricordo quando e come sia accaduto.
Anzi, diciamocelo in confidenza: proprio non lo so.
Forse quando il futuro pareva non riservarmi altro che una costellazione di piaghe da decubito da unire come puntini della settimana enigmistica, all’undicesimo giorno di auto tumulazione sotto lenzuola e coperte, vestita d’un pigiama logoro e spiegazzato, in compagnia di parole sole, scritte su uno schermo dalla luce tagliente, respinte né più né meno che da un’idea.
Forse, invece, è successo tenendo, una volta ancora, una mano nella mia: con le gambe accavallate sotto al tavolo di una trattoria fiorentina, accostata a un muro rivestito di pannelli di legno un po’ squallidi, potrebbe essere avvenuto lì, stringendo la mano, ora di un amico, che ignaro mi accompagnava a riscoprire la bellezza dell’inatteso;
oppure assieme a tre sconosciuti, a una bottiglia di vino nomade, sul retro d’un’automobile coi tergicristalli accesi che s’andava perdendo per le salite di prima periferia al ritmo di rock music e bestemmie aspirate.
O che siano state le pagine scritte di qualche tomo in apparenza spaventevole? Di quelle, settecento circa, che ti fanno sbarrare gli occhi e arretrare; che appena le sfogli ti fanno disperare; di quelle dalle righe fitte che ti spaccano la testa e squassano lo stomaco, ma dalle quali – se sopravvivi – fuoriesce un nuovo, ingarbugliato, gheriglio di te?
Sta di fatto che, senza sapere né il come né il quando, ho capito.
Ma avevamo detto degli incontri; che ormai vi starete chiedendo che mannaggiaddio c’entrano ‘sti incontri.
Beh, c’entrano eccome.
Sono loro, gli incontri che abbiamo fatto, che facciamo, che faremo.
Loro che tracciano inconsapevolmente quella strada che ho imparato a non cercare più ma che, semmai, aspetto di veder apparire, come una scia disegnata dietro le spalle.
E negli incontri non c’è niente di necessario: l’incontro è fortuito, per definizione; ci inciampi e per caso scopri qualcosa di te che, certo, era sempre stato lì, ma chissà perché non avevi mai considerato tuo…
Che l’incontro altro non sia che un catalizzatore esterno di coraggio per svelare a noi stessi quello che siamo sempre stati pur essendone all’oscuro?
Per me, incontro è stato quel Jacques Lacan che col suo desiderio è divenuto a-mur, abbattuto dall’acuta chiarezza di un suo lettore;
sono state le parole gioiosamente piene, il ritmo gitano e saltellante di un arcinoto pezzo di Gazzè; un salotto ravennate che accoglie la mia voce dacché sono Sofia.
Sono stati volti, gesti; discorsi strampalati che ho collezionato con un poco d’ardire.
È stata la smorfia interrogativa di un rubicondo contadino del sud dell’Inghilterra che mentre mi raccontava della sua adorata Charlie, oh Charlie!, assisteva a quella me che sbagliava una, una sola semplicissima parola, e di rimando sottolineava scocciata di ritrovarsi con le mutande tutte bagnate, a regalare ben più dei dieci minuti di crampi allo stomaco per le risate dell’epoca.
Incontro è stata una mano inattesa, che mi ha pescata nel buio di una sala da ballo; che mi ha stretta in un bacio interminabile e, senza nemmeno saperlo, mi aveva già su un treno.
Lo stesso treno in cui una caviglia, appena distorta, ha urtato contro la vita di un filosofo senegalese per farmi scoprire dai suoi occhi come io tanto somigli all’Albatros dei versi di Baudelaire: goffo e ferito a terra; elegantissimo in volo.
Ecco, io laggiù a terra, goffa e ferita, spaesata e terrorizzata nel cercare “la mia strada”, non ci torno più.
Preferisco librarmi come avessi ali d’uccello, e dall’alto notare che, in fin dei conti, se stringo un po’ gli occhi e guardo giù, verso il punto da cui ho preso il volo, li vedo poi tutti, quegli incontri che hanno avuto il volto di persone, la forma di lettere e l’odore di inchiostro.
Li vedo poi tutti e se li riconnetto eccolo lì, il mio sentiero.
Non certo una linea retta, ma l’irripetibile ed irrinunciabile zigzag che sono io.