L’inizio di una storia (di cui credevo conoscere il continuo)

Oltre l’ingresso del numero 38 di via Mazzini non si vede nessuno.

Lo schienale consunto dello sgabello circolare, ormai nemmen più tiepido – scommetterebbe – dà le spalle al tavolo da lavoro su cui riposano gli strumenti del mestiere, mentre i suoi occhi riflessi scrutano rapidamente al di là della vetrina.

La trova al solito, apparecchiata di originali gioielli artigianali in cui pietre e metalli preziosi convolano a nozze grazie alla rara manualità di un orafo.
Rarità, la spettatrice intende, per la giovane età dell’officiante: deve esserle di poco più giovane, quel ragazzo che pur maneggia l’arte antica di unire gemme e leghe insieme per l’eternità.

Mentre il suo sguardo indugia ancora qualche secondo in cerca di conferme una certa soddisfazione le solletica il petto, come ogni volta che le riesce d’indovinare qualche cosa.

Di tanto in tanto – si sorprende a pensare – le capita di azzeccare tutte le definizioni delle parole crociate della Settimana enigmistica, ed è esattamente così che si sente quando provvede a chiudere l’ultima riga orizzontale di un sospetto, a completare logicamente una realtà senza schema che, converrete, è molto più complessa di un Bartezzaghi rassicurantemente pubblicato a pagina 33.

Come ogni martedì, ore 17.30, il bell’orafo è assente: ha lasciato il suo tesoro di preziosi custodito solamente da una serratura a doppia mandata.

Rincuorata dalla correttezza delle sue deduzioni, del “tutto secondo i piani” immaginati da una mente fin troppo fantasiosa, la ragazza stringe le braccia attorno al petto protetto da un giubbotto spesso spesso, ma non abbastanza da tenerla al caldo. Quasi un gesto automatico mentre s’avvia, un piede dopo l’altro, non troppo distante, verso la staccionata che cinge la chiesetta romanica e il piccolo giardino antistante.

Ad attenderla la solita panchina scalcagnata dalla troppa umidità romagnola.

[…]

HOUSE HUNTING HORROR STORY – vol. I

Ovvero delle cronache di quel che sarà narrato come primo tentativo di reperimento tetto.

Torino.

Anzi: centro, centrissimo di Torino.

Dopo un’ora di giri a vuoto per bacheche universitarie scovo un interessante annuncio online. Scrivo e prontamente mi danno appuntamento: “5 minuti a piedi dal Museo egizio, ci vediamo fra quaranta minuti”.

Penso che sia troppo bello per essere vero, una botta di culo troppo clamorosa per i miei standard, tendenzialmente – rimarchiamolo! – opposti.

Tuttavia “Stay positive!”: messa da parte l’indole pessimista me lo ripeto come un mantra!

In fin dei conti provano a convincerci ad essere i personal coach di noi stessi; allora penso quasi quasi di filmarmi a mò di autoincitamento, di caricare il video su YouTube e di riguardarlo (e riguardarmi) a oltranza, cinque, dieci, quindici volte, sufficienti comunque per ricacciare ogni residuo di quella prudente titubanza la cui vocetta immagino più o meno così: “Ah Sofì, a me me puzza de inculata”!

Ma stiamo positivi: la vita è bella, le novità sono fantastiche, elettrizzanti, nient’affatto destabilizzanti, la vita è facile se sai come guardarla e tu, mia cara, troverai casa al primo tentativo.

Così suono ad uno dei tanti campanelli del civico 29 di via Lagrange e di fronte a me si spalanca un magnifico ed imponente portone ad arco.

È la porta di un paradiso immobiliare; lo sento, e ne avverto ed attendo, ormai devota, l’Annunciazione.

Il mio arcangelo Gabriele si chiama però Elisa* e non ha le fatezze d’un cherubino; sembra piuttosto emaciata, un po’ troppo mingherlina per passarsela bene. D’altronde si tratta di un nunzio del ventunesimo secolo, di una intercessione 2.0, voluta da piani alti in cui le pari opportunità devono averle evidentemente raggiunte da un pezzo e in cui magari si promuove pure una dieta a basso contenuto di grassi.

Ma dalle stelle alle stalle, si sa, il passo è breve; e qui, precisamente, c’è un uscio di mezzo!

Basta mettere un piede ed una punta di naso al di là della soglia di casa ed è subito sconfort zone, con buona pace di tutto il behavioural training di sti grandi catzi.

Al posto del salotto abbiamo infatti “la particolarità di questa abitazione” (cit.), dove la stanza privata dell’angelica Elisa sa sostituire la canonica zona giorno per farne una “singola di passaggio”, un crocevia obbligato fra ingresso, mia ipotetica stanza e cucinotto.

Ovviamente non mi dovrei fare alcun genere di problema a calpestare quotidianamente il suolo della sua “camera” per raggiungere la mia spoglia stanzetta: sarebbe solo per 12 mesi, chessarà mai!

Parliamo poi dei servizi di pregio, dotati d’un sanitario ibrido che denomineremo vascoccia o docciasca, per crasi delle normali vasca e doccia, forse troppo banali per rimanere in voga in terra sabauda. Si tratta, di fatto, di un bacile simile ad una vasca, la cui metratura rassomiglia molto più a quella d’una doccia, e la cui comodità è ovviamente massima e fuori discussione, poiché consente all’inquilina di provarsi in acrobazie che, in tempi di crisi (e di crasi idraulica), potrebbero risolversi in nuove fruttuose opportunità di carriera come contorsionista o acrobata di circo. Insomma, un vero punto di forza dell’abitazione.

La reale punta di diamante di casa è tuttavia conservata in cucina, a fianco di una stufa a gas databile 1960.

Di cosa sto parlando? Ma di un frigorifero 60cm*80 – un minibar sovrappeso – dalle roboanti prestazioni, fornito “addirittura di una parte per congelare i cibi” (cit.)

Addirittura, addirittura, che di fronte a tutto quel lusso il mio spirito proletario non ha che potuto recalcitrare e spingermi a pronunciare un sonoro “no, è troppo per me”!

È davvero troppo, per me: #staypositive #staychoosy!

(*) Elisa è un nome (forse) fittizio.

Liberazione

Sono mesi che c’ho sta questione degli incontri che mi frulla per la testa.
E no, non sto parlando di Tinder, che a quello ci pensa già la Lucarelli.
Insomma: mesi che mi chiedo come cavolo scrivere con dita lievi di qualcosa che m’ha salvato la testa e, magari, fa fare due pensieri sereni pure a voi.

Avete presente tutte le volte che ci siamo sentiti ripetere che avremmo trovato (o dovuto trovare) la nostra strada? Beh, io ero convinta che l’avrei trovata lanternino alla mano.
Un bel giorno, credevo, avrei finalmente scovato le coordinate del sentiero che mi (a)spettava: era sempre stato là, avrei scoperto; già tracciato, quasi una vocazione atemporale stabilita mentre ancora persa, a vagare per un labirinto che ‘mio caro Icaro fammi il piacere’, se ne stava quella me, più che temporale, nel bel mezzo di un temporale – e senza ombrello, inutile dirlo.

Così mi affannavo a decifrare nel corso delle giornate segnali, cartelli stradali che sapessero guidarmi verso La strada (e io e la guida, lo sapete, siamo decisamente una contraddizione in termini!). A forza di cercare, gennaio s’è fatto dicembre, l’anno nuovo è diventato vecchio, la fronte ha messo su una ruga in più, non certo scalfita da labbra incurvate all’insù.
Insomma, il tempo è passato e ho iniziato a sentire che il bel giorno, di cui sopra, avrebbe dovuto essere alle porte. Eppure non bussava: nessun Toc-Toc alla porta, nessuna strada a cui aprire il mio orizzonte.
Che il mio navigatore GPS non funzionasse a dovere? Che fosse guasto?
O guasta io, magari. Sì, milioni di volte, mi ci sono sentita: guasta.
Persuasa d’essere male impostata, ricalcolavo il mio percorso, ottenendo niente più che una clessidra continua.

Poi non ricordo quando e come sia accaduto.
Anzi, diciamocelo in confidenza: proprio non lo so.
Forse quando il futuro pareva non riservarmi altro che una costellazione di piaghe da decubito da unire come puntini della settimana enigmistica, all’undicesimo giorno di auto tumulazione sotto lenzuola e coperte, vestita d’un pigiama logoro e spiegazzato, in compagnia di parole sole, scritte su uno schermo dalla luce tagliente, respinte né più né meno che da un’idea.
Forse, invece, è successo tenendo, una volta ancora, una mano nella mia: con le gambe accavallate sotto al tavolo di una trattoria fiorentina, accostata a un muro rivestito di pannelli di legno un po’ squallidi, potrebbe essere avvenuto lì, stringendo la mano, ora di un amico, che ignaro mi accompagnava a riscoprire la bellezza dell’inatteso;
oppure assieme a tre sconosciuti, a una bottiglia di vino nomade, sul retro d’un’automobile coi tergicristalli accesi che s’andava perdendo per le salite di prima periferia al ritmo di rock music e bestemmie aspirate.
O che siano state le pagine scritte di qualche tomo in apparenza spaventevole? Di quelle, settecento circa, che ti fanno sbarrare gli occhi e arretrare; che appena le sfogli ti fanno disperare; di quelle dalle righe fitte che ti spaccano la testa e squassano lo stomaco, ma dalle quali – se sopravvivi – fuoriesce un nuovo, ingarbugliato, gheriglio di te?
Sta di fatto che, senza sapere né il come né il quando, ho capito.

Ma avevamo detto degli incontri; che ormai vi starete chiedendo che mannaggiaddio c’entrano ‘sti incontri.
Beh, c’entrano eccome.
Sono loro, gli incontri che abbiamo fatto, che facciamo, che faremo.
Loro che tracciano inconsapevolmente quella strada che ho imparato a non cercare più ma che, semmai, aspetto di veder apparire, come una scia disegnata dietro le spalle.
E negli incontri non c’è niente di necessario: l’incontro è fortuito, per definizione; ci inciampi e per caso scopri qualcosa di te che, certo, era sempre stato lì, ma chissà perché non avevi mai considerato tuo…

Che l’incontro altro non sia che un catalizzatore esterno di coraggio per svelare a noi stessi quello che siamo sempre stati pur essendone all’oscuro?
Per me, incontro è stato quel Jacques Lacan che col suo desiderio è divenuto a-mur, abbattuto dall’acuta chiarezza di un suo lettore;
sono state le parole gioiosamente piene, il ritmo gitano e saltellante di un arcinoto pezzo di Gazzè; un salotto ravennate che accoglie la mia voce dacché sono Sofia.
Sono stati volti, gesti; discorsi strampalati che ho collezionato con un poco d’ardire.
È stata la smorfia interrogativa di un rubicondo contadino del sud dell’Inghilterra che mentre mi raccontava della sua adorata Charlie, oh Charlie!, assisteva a quella me che sbagliava una, una sola semplicissima parola, e di rimando sottolineava scocciata di ritrovarsi con le mutande tutte bagnate, a regalare ben più dei dieci minuti di crampi allo stomaco per le risate dell’epoca.
Incontro è stata una mano inattesa, che mi ha pescata nel buio di una sala da ballo; che mi ha stretta in un bacio interminabile e, senza nemmeno saperlo, mi aveva già su un treno.
Lo stesso treno in cui una caviglia, appena distorta, ha urtato contro la vita di un filosofo senegalese per farmi scoprire dai suoi occhi come io tanto somigli all’Albatros dei versi di Baudelaire: goffo e ferito a terra; elegantissimo in volo.

Ecco, io laggiù a terra, goffa e ferita, spaesata e terrorizzata nel cercare “la mia strada”, non ci torno più.
Preferisco librarmi come avessi ali d’uccello, e dall’alto notare che, in fin dei conti, se stringo un po’ gli occhi e guardo giù, verso il punto da cui ho preso il volo, li vedo poi tutti, quegli incontri che hanno avuto il volto di persone, la forma di lettere e l’odore di inchiostro.
Li vedo poi tutti e se li riconnetto eccolo lì, il mio sentiero.
Non certo una linea retta, ma l’irripetibile ed irrinunciabile zigzag che sono io.

mano nella mano

Chi lo avrebbe mai detto

Pescavi pesciolini buoni solo per i gatti, paganelli per lo più, sul molo di Cervia, la mattina d’estate. Retino in una mano, canna da pesca nell’altra.
Chi lo avrebbe mai detto, che avresti cavalcato le onde dell’oceano Pacifico un giorno? Chissà se, ogni tanto, ti viene anche là, la voglia di pescare; là, dove i paganelli chissà se ce li hanno.

Mi svegliavo, la stessa mattina e, di tanto in tanto, ti raggiungevo. Mi divertiva quel nostro giocare ai bambini abbandonati e sfigatelli. Dovevamo racimolare un po’ di cibo, per vivere, o che cosa ne sarebbe stato, di noi…
Mi scaldava, quella nostra tragica ma buffa complicità.
Chi lo avrebbe mai detto, che in quella nostra ricorrente immaginazione ci fosse già una piccola prova di sopravvivenza; perché ora si tratta, davvero, di racimolare un po’ di “cibo”, di far provviste, scorte quotidiane d’esperienza, o che cosa ne sarà, di noi…

E c’erano quegli infiniti pomeriggi di sole in cui, troppo piccoli per sentirci cotti dall’afa, ce ne stavamo per ore ed ore seduti al tavolo tondo, nell’angolo che i grandi chiamavano il Forno. Giocavamo a scala quaranta e, spesso, si barava, col solo intento di far infuriare la Frenci. Ci riuscivamo sempre.
Chi lo avrebbe mai detto, che le nostre carte false sarebbero diventate ben altre? Che le avremmo giocate per un trenta all’università, per una borsa erasmus, per un tirocinio dall’altra parte del mondo; per un uomo, per una donna, per un lavoro.

Le partite a Monopoli, quelle non finivano mai.
Appuntavamo ogni proprietà, ogni singola casa, ogni albergo e tutti, ma proprio tutti gli spiccioli che avevamo raggranellato su un foglietto di carta, così il giorno avremmo potuto riprendere il nostro giro da Vicolo Corto a Parco della Vittoria esattamente da dove eravamo rimasti.
Chi lo avrebbe mai detto, che sarebbero passati da via delle Fragole a Santa Monica Boulevard, adesso, i nostri giri?
Che, poi, non sarebbe mica stato più tanto semplice riprendere esattamente da dove eravamo rimasti.
Che per andare da Bangor a Los Angeles, da Valencia a West Hollywood, quanti tiri di dado bisogna fare?

Le serate in cui tre era il numero perfetto, il numero dei tris della Casa delle Aie da dividere rigorosamente in due, le ricordi?
Le stesse in cui si finiva allo Shaky, un po’ a ballare, un po’ a strusciarsi scioccamente, come solo da diciassettenni si può.
Quando s’era fatto tardi, con un freddo da far battere i denti, con quel freddo da cui solo una manciata di fogli di giornale raccolti dall’immondizia poteva salvarci, mica andavamo a casa; non prima, almeno, di esserci fermati sul porto canale, con un bombolone untissimo di Stradaioli fra i denti.
Chi lo avrebbe mai detto, che il freddo che si prova ora non si sarebbe attenuato con un bel bombolone farcito? Che le notti d’agosto sarebbero diventate le mie, le tue, non più le nostre?

Chi lo avrebbe mai detto, caro amico mio, che oggi saremmo stati qui, al punto in cui rispettivamente siamo.
Due punti lontani, diciottomila chilometri circa. Due punti felici? Due punti al punto giusto?

Forse più che punti io, caro amico mio, ci vedo un punto e virgola ; ci vedi anche tu?

Angelo

Si chiamava Angelo.
Il suo nome, in realtà, lo seppi per poco più di un attimo; subito dopo fu Angelo.

Era sera, dicembre, quando il freddo nell’aria odora ancora di castagne.
Era una cena, a casa di amici passati, in una palazzina con cortile interno, dietro un grande portone tra i portici di via San Felice. Lui era già lì.
Il tempo di qualche bicchiere buono, e via, a ballare, nella penombra grunge dell’Arteria. S’era gioiosi, spensierati, ridanciani e pieni: di energie, di speranza, di voglia.
Nemmeno ventenni.
I nostri corpi giovanissimi si dimenavano, primitivi.
Io, che non ho mai saputo ballare, non bene almeno, sudavo e sentivo, nella musica, quell’adrenalina che monta in chi balla, l’odore di chi si scopre vivo abitando note distorte.
Fu allora che qualche mano lesta s’approfittò della mia sprovvedutezza.
La borsa, abbandonata, incustodita su un divanetto, ripulita.
Fu allora che Angelo, divenne Angelo.

Non ricordo nemmeno un secondo di dispiacere quella notte, anche se sicuramente ve ne fu più d’uno.
Ricordo solo di un ragazzo, riccioli neri come la pece.
Ricordo, per una volta nella vita (e ovviamente quella sbagliata!), di aver avuto i tacchi. I piedi mi facevano così male lungo Strada Maggiore, mentre mi accompagnava in questura, che gli salì a cavallo, sulla schiena. Ricordo il freddo e le risate, e dire che la strada era lunga ed ero completamente al verde.
Ricordo noi che, parcheggiati per ore in una sala dalle luci al neon, assistevamo imbarazzati a uno stravagante arresto; un uomo riverso a terra, avvolto dallo scotch e un poliziotto che ci urlava contro qualcosa che doveva suonare all’incirca “cosa fate qui voi? Uscite!”.
Poi di nuovo in strada, avvolti dal calore dei portici, per recuperare il suo vespino. Lo trovammo senza benzina, ma non vi fu alcuna agitazione, nessuna imprecazione. Solo altri sorrisi e battute complici nel portarlo a spinta fino al primo distributore, chissà dove, mortificata per non poter contribuire nemmeno con un centesimo alla benzina.
E poi via, la vespina che fila per i viali, verso l’altra parte della città; due sconosciuti a bordo.
Le luci sfocate delle macchine che ci sorpassavano, e io stretta a quel ragazzo, conosciuto qualche ora prima eppure così vicino.
Ricordo le ultime due curve, al buio di via dei Lamponi. Infine un saluto, fermi sulla soglia di casa in via delle Fragole. Non una carezza, non un bacio, nessuna romanticheria.

Non li vidi mai più, quei riccioli neri.
Restano il mio incontro perfetto, con quell’Angelo, che pare si chiamasse Fabio.

Di mele, pere e interruttori

Ci sono quei giorni che hai il buio dentro.

Ti muovi a tentoni.
Giochi a moscacieca con le sensazioni, mentre i pensieri ti urtano più di spigoli.
Giorni in cui ti affanni a cercare qualcosa in cui credere.
Al fatto che bisogna bastarsi, per esempio, non ho mai creduto granché.
Il mito dell’autosufficienza, dell’imparare a star bene da soli non è, ancora, riuscito a sedurmi. Stare bene con se stessi è, per me, la propedeutica a stare bene, meglio, in compagnia.
Quindi, se proprio devo scegliere, preferisco il mito platonico delle due metà di una stessa mela.

Sorte beffarda, io che credevo di averla trovata la mia metà, di mela.
Di Mela, però, lui ne ha preferita un’altra.
Allora, che io sia una pera?
Intanto che ci penso, quasi quasi mi faccio un giro al reparto ortofrutta.

Ci sono quei giorni che hai il buio dentro.
Attendi un incontro, che accenda la luce.

Caro Poletti

I grandi discorsi, quelli che hanno influito sulle sorti dell’umanità, quelli di un Martin Luther King, un mahatma Gandhi o di una Aung San Suu Kyi, conoscono da sempre una certa risonanza mediatica.
Fra i miracoli della era della comunicazione 2.0, invece, c’è che anche i discorsi del cazzo rimbalzano ovunque e con discreta velocità.

È il caso delle parole dell’ottimo ministro Poletti che, casomai ci fosse rimasta qualche simpatia per il governo Renzi, ha provveduto a farne piazza pulita nell’arco di quarantuno secondi.

Sarà che mi sento tirata in ballo; sarà che a 27 anni ho ancora una tesi di laurea che mi pende sulla nuca come una spada di Damocle; o che nella fiaba di Esopo, fra la lepre e la tartaruga ho sempre preferito la seconda.
Sia quel che sia, ma le sagge parole del nostro ministro-allenatore, m’hanno fatta incazzare. Cercavo qualche espressione più aulica e patinata, un “hanno risvegliato in me un’indomita vis polemica” o affini, ma perché girarci intorno, quando le sue parole m’hanno fatta, niente più, niente meno, che incazzare?!
A infastidirmi non tanto la demagogia dell’affermazione (si pensi al contesto in cui veniva pronunciata: una giornata di recruiting universitario) che «prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico. E’ meglio prendere 97 a 21».
No, questa cazzata la potrei ancora tollerare, benché sappia che contiene un fondo di agghiacciante e insopportabile realismo.
La scelta del lessico, è quella che mi mette i brividi.
La scelta di inserire lessicalmente nell’ambito degli studi quella velocità, efficienza e ottica agonisticamente (e antagonisticamente) prestazionale, che sono retaggio di un discorso di natura prettamente economica.
Che l’università sia ormai considerata alla stregua di un’azienda, lo abbiamo capito.
Ma preoccupa quella maniacalizzazione del tempo per cui lo studente deve trasformarsi in un atletico piccolo capitalista, pronto a rivaleggiare, ad andare «in diretta, rapidissimamente» a far vedere che «in tre anni ha bruciato tutto e voleva arrivare».
Che poi, uno che studia, dove di preciso deve arrivare? Cosa, di preciso, deve bruciare?
A che «campionato» sta partecipando uno studente, uno a caso, di Lettere?

Io non mi ci sono mai segnata al campionato, Mr. Poletti…che, mi prende lo stesso in panchina?

Ansia da Venerdì nero

Io c’ho delle ansie apocalittiche sull’americanizzazione del mondo.
Ma proprio che mi prende una paura assurda, che diventiamo tutti degli automi che non sanno più stare assieme, ridere e scherzare.
Oggi, poi, con tutti ‘sti annunci “Black Friday” di qua, “Black Friday” di là, me la sto facendo sotto. Mi immagino che arriviamo a scazzottarci, calpestarci, malmenarci, a farci grovigli umani per spuntarla sui venti pezzi disponibili di Tv LCD Laser Mega Ultra Plasma al cinquanta per cento, che tanto o ci addormentiamo alle nove e mezza sul divano, oppure ci guardiamo le torte in HD.

Che se mi guardo intorno bene, lo vedo che è venerdì nero un po’ tutti i giorni.
E’ venerdì nero quando i ragazzini si salutano col gesto del surfista o con tutta quella tiritera di gesti prêt-à-porter, che manco se studiassi una settimana intera li memorizzerei correttamente.
E’ venerdì nero quando sento un trionfale e gioioso “oh, mi sono spaccato ammerda ieri sera”.
E’ venerdì nero – e qui sarò impopolare – quando tutti hanno un cazzo di cane, perché diciamolo, ci sentiamo tutti fottutamente soli ma ci vergognamo a dirlo. Al cane mica glielo devi dire che ti senti solo, che vuoi che sia tuo amico. Non lo devi conquistare, non ti tradisce come gli affetti umani: al cane gli fai le coccole, lo porti a spasso, gli dai le crocchette (per carità, ipoallergeniche e biologiche) ed è fatta. Allora, per me, anche il cane è “americano”.
E’ venerdì nero quando mi vogliono spiegare che in azienda si deve aderire a una vision, orientata a una mission, che si rivolge a un target, scelto mediante un benchmark, che io madonnasantodio non ho capito un cazzo di quello che mi stanno dicendo.
E’ venerdì nero quando mi tolgono i freni dal manubrio della bicicletta e me li mettono nei pedali, così devo fare tutta una manovra astrusa per frenare e alla fine casco, perché io all’americana non ci so proprio pedalare.

Che se però ci penso bene, io un americano vero, di quelli nati in USA, non lo conosco mica. Allora mi sa che faccio un biglietto e via, vado a vedere. Magari scopro che in America ci sono meno americani che qua.